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Brevi lezioni sul linguaggio. Intervista a Federico Faloppa

di Federico Faloppa Bollati Boringhieri, 2019

Pubblichiamo di seguito l'intervista a Federico Faloppa, docente di Storia della lingua italiana e Sociolinguistica nel Dipartimento di Modern Languages dell’Università di Reading e coordinatore del Tavolo nazionale contro i discorsi d’odio, a partire dal suo libro "Brevi lezioni sul linguaggio" (Bollati Boringhieri, 2019). Faloppa è anche firmatario della Carta delle responsabilità dei social media di Gariwo. 

Che cosa ti ha spinto a riprendere le fila del linguaggio e della linguistica e scrivere queste lezioni? C’è un motivo in particolare?

L’idea di questo libro nasce dalla didattica, precisamente da un corso introduttivo al linguaggio che tengo in Inghilterra con gli studenti del primo anno. Un tentativo didattico, nel quale, oltre ad alcune nozioni tradizionali, ho cercato di unire in modo interdisciplinare degli spunti di ecolinguistica, biologia, psicolinguistica, comunicazione non verbale. Mi piaceva l’idea di raccontare tutto ciò come se fosse un viaggio, prendendo per mano il lettore e provando ad affascinarlo rispetto ai misteri, alle scoperte, alla ricchezza del linguaggio, intenso come abilità umana, insieme di caratteristiche comuni su cui si basano tutte le lingue.

Ho voluto scrivere sulla bellezza del linguaggio, rivelando anche quali sono le tante domande aperte, le imperfezioni, le questioni su cui siamo poco attenti e che invece sono molto rilevanti sul piano della comunicazione. Mi sono occupato per vent’anni di quello che separa tramite il linguaggio; in queste brevi lezioni invece cerco, anche sul piano etico, di spingere a interrogarsi su ciò che grazie all’abilità del linguaggio unisce, e di renderci consapevoli e quindi più responsabili verso il linguaggio. Una novità degli ultimi decenni della linguistica tutta è stata il suo aprirsi ad altre discipline, genetica, paleontologia, archeologia, che ci dicono molto sulle possibilità di questa abilità che noi chiamiamo linguaggio e su quanto c’è ancora da sapere.

Nel libro parli anche di umanità del linguaggio. Perché questa lingua, che appunto è la caratteristica essenziale che definisce l’essere umano, viene usata in modo spesso così “disumano”, come vediamo accadere giornalmente in particolare nel Web. Che cosa ha portato a questo sdoganamento delle espressioni di odio?

Provo a risponderti dividendo la domanda in due parti. Per quanto riguarda l’umanità del linguaggio, nel mio libro spero di invitare il lettore a porsi delle questioni a cui spesso non si arriva, per disattenzione o perché non se ne hanno gli strumenti. Una di queste, riguarda la variabilità del linguaggio e quella che noi chiamiamo ecolinguistica: il linguaggio come parte degli ecosistemi, che non solo descrive l’ambiente in cui viviamo e ci fornisce delle coordinate per muoverci al suo interno, ma ci dà anche la possibilità di avere una connessione con ciò che ci circonda. Parliamo ad esempio di lingue che nascono e che muoiono. Da linguista, potrei dire che, se siamo portati ad usare meno una lingua a tal punto da farla scomparire, non possiamo farci nulla. In realtà, in molti ci stanno chiedendo se questo “genocidio linguistico” - perché anche di questo si parla - sia naturale o invece ci debba allarmare. Se le lingue scompaiono, la nostra capacità di leggere le culture e il mondo rimarrà la stessa? E insieme a una lingua, si perde anche tutto il bagaglio di conoscenza della popolazione che vive quel territorio? dovremmo fare qualcosa per salvare queste lingue? Sono domande che ho lasciato un po’ in sospeso nel mio libro, ma che credo siano importanti oggi che si parla tanto di ambiente e sostenibilità. Considerare il linguaggio umano all’interno di un ecosistema potrebbe essere interessante per capire meglio il contesto in cui viviamo e le differenze nel rapporto tra le popolazioni e i loro ambienti.

E poi c’è un altro elemento legato alla caratteristica dell’umanità: quello del linguaggio come abilità non soltanto umana, ma anche animale. Io credo che se anche noi linguisti ci avvicinassimo ad esso con dei paradigmi diversi - cioè non immaginando che gli animali debbano usare le nostre stesse strutture, ma che quelle che usano siano comunque funzionali al loro vivere sul pianeta - forse riusciremmo a leggere il linguaggio animale con un po’ più di umiltà e con una capacità maggiore di scoperta, anche per quanto riguarda la nostra stessa relazione con l’ambiente.

Rispetto invece alla seconda parte della domanda, abbiamo 7mila lingue parlate al mondo che utilizzano lessici e modi diversi per raccontare, ma hanno delle modalità abbastanza simili sul piano antropologico - nel modo di definire chi è parte e chi no di una comunità, di parlare del nemico o dell’alleato, di esprimere alcune emozioni di base tra cui la paura e la rabbia… elementi questi che possono rientrare nella sfera del linguaggio d’odio, una modalità di utilizzo molto specifica, che non è stata certo introdotta dai social media. Da Razzisti a parole (Laterza, 2011) cerco di interrogarmi sui linguaggi dell’odio: si tratta di modi per isolare ed escludere l’altro, sulla base dell’appartenenza a un gruppo, del colore della pelle, del genere, della disabilità. Quello che è cambiato con i social media è per prima cosa il mezzo in sé, percepito come un’espansione del nostro linguaggio colloquiale, che ha amplificato il messaggio e l’ha fatto diventare trasversale. E poi, nei social media, sembra spesso venir meno il principio per cui chi dice una cosa deve in qualche modo supportarla logicamente, argomentando, e sentirsi resposanbile degli effetti che può avere su una comunità aperta, attraverso un mezzo che spesso non si conosce o non si sa, e si può, controllare.

Parafrasando e semplificando ciò che dice la mia amica e collega Vera Gheno: “I social media sono un po’ come il balcone di casa. È vero che appartengono ancora all’interno della casa, fuor di analogia alla propria sfera privata e intima, ma in realtà ci espongono all’esterno, a un pubblico, per cui bisogna avere l’accortezza di esprimersi in un modo che tenga conto del fatto che altri ci possono vedere, ascoltare. Se nella comunicazione faccia a faccia controlliamo l’interazione, e se con la battuta da bar sappiamo quale pubblico abbiamo di fronte, attraverso i social media raggiungiamo una quantità di persone potenzialmente illimitata. Un’affermazione online può essere rilanciata, riprodotta, conservata, suscitare delle reazioni inaspettate… quando l’onorevole Laura Boldrini nel 2016 pubblicò sulla sua pagina Facebook parte delle offese ricevute online (con tanto di nome e cognome di chi le aveva proferite, esponendo involontariamente essa stessa quelle persone alla gogna mediatica...), dichiarò di averlo fatto per mettere coloro che dicono certe cose intollerabili di fronte alle proprie responsabilità e per far notare quanto molti utenti non capiscono quale sia la portata effettiva dello strumento che utilizzano. C’è ancora purtroppo un grande analfabetismo sul piano dell’uso del mezzo; e bisogna fare ancora molto per educare in questo senso, non tanto i nativi digitali, quanto chi si è affacciato in età già adulta ai social media e pensa di potervisi approcciare come fosse una comunicazione fra intimi. Anche il linguaggio d’odio, appunto, si riflette in questa mancanza di consapevolezza: quello che si pensa essere uno sfogo privato può invece avere una ricaduta penale, può essere diffamazione, ingiuria, calunnia, incitamento all’odio. Con i social media sono nate anche modalità di comunicazione più creative, i meme, forme miste tra parola, suono e immagine. L’offensività si è in qualche modo potenziata e moltiplicata, divenendo pervasiva, intrusiva, diffusa, transnazionale.

Nel Web inoltre, c’è poco spazio per il dibattito ma molto per la semplificazione e la polarizzazione del messaggio. Si può esporre una vittima, per esempio, non soltanto a un messaggio d’odio, ma a decine di rilanci, a uno stillicidio di messaggi rapidi, incontrollabili, spesso anonimi. Le modalità del mezzo incidono molto sulla diffusione, la virulenza e anche la violenza percepita dell’espressione. Pensiamo a cosa può avvenire se un politico che ha 2milioni di followers su Facebook punta un dito contro qualcuno: quella persona non verrà colpita solo dal suo messaggio, ma probabilmente anche da tutti i commenti relativi e da coloro che le scriveranno direttamente. Bisognerà poi stabilire, sul piano penale, di chi è la responsabilità. Proprio a questo proposito, dal 2016 il Consiglio d’Europa e poi gli Stati europei stanno chiedendo ai social media di riconoscere il proprio ruolo, in quanto non sono solo una forma di rimbalzo del messaggio, ma lo producono e riproducono.

Un altro problema emerso è, una volta accertata la responsabilità, il modo in cui viene censurato un messaggio. Viene tolto oppure no? E chi decide se deve essere cancellato?

Gli strumenti automatici possono filtrare alcuni messaggi, funzionano molto bene con certe tipologie di abusi - foto di minori, pornografia -, ma su livelli più impliciti, sull’ironia ad esempio, è molto difficile stabilire dove c’è violenza o offesa. I moderatori umani ci sono, ma non sono così numerosi come ci si aspetterebbe, anche per i più grandi social media. Un caso particolare è quello della Germania, dove in molti sono stati assunti dopo che, nel 2018, il governo tedesco ha deciso di multare severamente i provider che non togliessero l’incitamento all’odio entro 24h dalla pubblicazione. Se esistono questi controlli, ci si può chiedere allora perché alcuni messaggi offensivi di Matteo Salvini per esempio, che hanno esposto delle vittime alla pubblica gogna, sono stati rimossi e altri no. Dipende appunto dall’intervento dall’esplicitezza del messaggio d’odio, da quanto può essere filtrato automaticamente o da quanto invece dipenda dall’intervento del moderatore umano, e certo anche dal contesto che risponde all’agenda politica anche del provider stesso… sono molte le questioni interconnesse, e vanno ancora tutte approfondite.

Sul piano squisitamente linguistico, ci siamo focalizzati per molto tempo sulle parole offensive o sugli insulti etnici, che in realtà sono i più facili da individuare e rimuovere automaticamente (anche se andrebbero sempre valutati tenendo conto del co-testo: ricordo un caso celebre di rimozione automatica di Negro, che l’algoritmo non aveva riconosciuto come cognome ma, erroneamente, come insulto) mentre è nella testualità, nella pragmatica, nell’argomentazione che si possono nascondere aspetti più complessi da identificare, e verso i quali la macchina ancora non riesce a intervenire automaticamente.

Non è più soltanto l’insulto etnico, lo stereotipo di genere, l’insulto, che attiva l’offesa e da lì la discriminazione. Ci possono essere anche metafore deumanizzanti (“insetti”, “marea umana”, “sciame”), o argomentazioni errate. In retorica sono frequenti le fallacie, ad esempio. Dire “O stai coi terremotati o stai con le persone che stanno sulla nave nel porto di Catania” è una fallacia di falso dilemma, perchè impone alla propria audience una scelta tra bianco e nero quando in realtà le opzioni sarebbero le più diverse. Quel messaggio di per sé non è d’odio, ma se quella polarizzazione fraudolenta produrrà violenza, nei commenti, nelle sue conseguenze, chi sarà ritenuto responsabile? Solo i commentatori, o anche chi ha eccitato, con quella falsa polarizzazione, la loro reazione feroce? Le fallacie sul piano della comunicazione sono molte; anche parlare di porti chiusi per proteggersi dal contagio del Coronavirus come pretesto per colpire i migranti lo è (potrebbe essere una fallacia di non consequenzialità, ad esempio). E come controlliamo invece l’umorismo? se io sono un comico - se n’è parlato molto a proposito del film di Zalone - fino a dove si può spingere la mia ironia? Rientra nel quadro di una rappresentazione falsata oppure è soltanto uno strumento di comicità basato sul controsenso, la rottura voluta delle regole pragmatiche? Come facciamo a definire quando essa produce odio? Senza contare che l’ironia è culturalmente determinata e non può essere individuata da un algoritmo, e che spesso non ci sono spie linguistiche immediate che ci aiutino a codificarla e filtrarla. I social media ci pongono di fronte a una doppia sfida: sul piano del dominio del mezzo, e sul piano dell’analisi del messaggio, e del suo contrasto...

Di fronte a questa complicazione è fondamentale l’educazione civica digitale

Sì, abbiamo molti dati che ci dicono quali sono le tendenze, possiamo capire quali sono i soggetti che vengono più colpiti, quali gli insulti più utilizzati, ma quello che questo approccio quantitativo non ci dice è l’utilizzo dello strumento da parte dell’individuo: le sue abitudini e le motivazioni, ad esempio, se esprime odio, o le sue percezioni, se ne è vittima. In questo l’educazione è fondamentale. Significa, però, che dobbiamo dialogare di più con gli utenti. Capire in profondità. Interrogarci con gli studenti, nelle scuole, su che cosa sia linguaggio d’odio per loro, quale sia per loro la norma o l’abuso. Quando vado nelle scuole e cerco di dare insieme ai ragazzi una definizione di linguaggio d’odio, spesso scopro che per loro alcune cose sono assolutamente normali, o che spesso il cyberbullismo non viene neppure percepito come un problema, qualcosa di cui parlare col professore, a casa. Questo approccio etnografico allo strumento e ai suoi utenti è fondamentale, non possiamo fare solo teoria, raccogliere dati, disegnare grafici. Dobbiamo immergerci nel loro mondo, ascoltare, costruire domande nuove insieme a loro. Le variabili sono tante e noi studiosi sappiamo tutto sommato ancora abbastanza poco anche per motivi generazionali, quindi oltre alla formazione degli insegnanti è importante il rapporto diretto con gli studenti, per testare le ipotesi che stiamo studiando grazie alla ricerca. L’approccio etnografico ci consente anche di capire la differenza fra un mezzo e l’altro: Facebook, Twitter, Tik tok, Instagram, hanno tutti delle specificità molto diverse, di cui dobbiamo tenere conto. Facebook è il balcone di casa: mi espone un pubblico ma mi dà la possibilità anche di richiudere la finestra se voglio. Su Twitter invece il messaggio può avere una scarsa come amplissima circolazione, anche in ambiti che l’utente non aveva assolutamente immaginato, e una volta che il messaggio circola, non lo si può più bloccare.

Parlavi di strategie di comunicazione, di uso del linguaggio in politica. Chi esprime un pensiero con una data impostazione spesso non lo fa casualmente, ma con una tecnica che conosce. Insegnare la lingua anche sotto questo punto di vista, analizzando - come hai fatto nel tuo libro - che cosa ci sta dietro e quali sono gli schemi di comunicazione, può essere un nuovo modo più efficace di educare?

Credo che sia fondamentale. Tengo un corso all’Università che si chiama Language and Power (lingua e potere) nel quale faccio esattamente questo. Prendo testi di vario genere, giornalistico, politico, medico, e indago con i miei studenti quanto come l’utilizzo di un certo linguaggio (dal lessico alla testualità, dal frame alla retorica) veicoli o nasconda ideologie, intenzioni, agende che il lettore o ricevente spesso non riesce a vedere. Qui in Inghilterra è stata la Critical Discourse Analysis a dare impulso, oltre trent’anni fa, a questo lavoro sul discorso, sulle sue modalità, sulle agenzie che lo producono, sui contesti che lo rafforzano o lo confondono, sui suoi impliciti. È un lavoro a mio parere importantissimo e lo si sta facendo sempre di più, anche in Italia. Ci sono corsi specifici, ad esempio, su quelle che in linguistica chiamiamo implicature e presupposizioni, cioè il fatto che quando produciamo un messaggio ci aspettiamo che chi lo legge diventi corresponsabile del suo significato, o non possa mettere in questione ciò che sta leggendo. Se si dice “È ora di ripulire Roma dai topi, dall’immondizia e dagli immigrati”, si sta chiedendo al lettore di mettere – e leggere, e interpretare - i tre elementi sullo stesso piano, attraveso un’implicatura detta di lista, in cui anche se i soggetti non sono comparabili, per il fatto che sono all’interno di una lista lo diventano. In questo caso ci si deve indignare, certo, per il messaggio offensivo nei confronti degli immigrati, ma dovremmo indignarci (o allertarci, almeno) anche per un altro motivo, ovvero per la strategia sottile che è stata utilizzata, che tra l’altro ci rende complici sul piano della produzione del senso. E quindi meno inclini a mettere in discussione l’assunto che stiamo condividendo.

Questo ci fa capire l’importanza di saper comprendere un testo complesso linguisticamente. I dati sulla capacità di capire un testo complesso, in Italia, non sono incoraggianti, soprattutto tra gli adulti. E si tratta di un problema enorme, perché chi non sa leggere un testo, non lo capisce non solo sul piano letterale, dell’informazione veicolata, ma anche sul piano dei tanti significati, spesso non ovvi, sottesi. Bisogna fare un lavoro enorme di educazione alla lettura del testo, così come alla comprensione e alla produzione di argomentazione logica.

La maggior parte dei messaggi diffusi sui social da Matteo Salvini non devono scandalizzarci perché sono offensivi, ma perché non sono supportati da un argomento logico, quindi lavorano nella zona grigia in cui chi riceve il messaggio non vede le debolezze argomentative del testo, e se ne fa persuadere senza averne colto le debolezze. Se invece fossimo in grado di individuarle, queste debolezze argomentative, non solo potremmo difenderci da esse ma anche dire – e questo dovrebbero farlo in particolare i giornalisti – “puoi pensare quello che vuoi, ma quello che dici non ha senso, logicamente”. Tutte le opinioni possono essere legittime (salvo che non siano penalmente perseguibili), ma alcune lo sono meno di altre perché non sono razionalmente valide. E quindi, non dovrebbero essere in grado di persuaderci, di prenderci per il naso. Se riuscissimo a comprendere questo, sapremmo non soltanto essere dei lettori migliori, ma anche dei cittadini più consapevoli, e degli elettori meno circuibili. 

Helena Savoldelli, Responsabile del coordinamento Redazione

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